È un uomo pacato, schivo quello che si presenta davanti a noi sabato mattina all’Hotel Dante di Lugano. Lui si definisce un orso, e come un orso vive nella sua caverna. La sua caverna però non lo isola dal resto del mondo, anzi la sua caverna è il mondo. Quel mondo che ama percorrere nei modi più semplici, lenti, che gli permettono di sentire i profumi dei luoghi e della vita: con il treno, in bicicletta, in autostop, con la Topolino e anche a piedi.
Lui è Paolo Rumiz, scrittore di Trieste che da dieci anni viaggia per conto del quotidiano la Repubblica, sul quale vengono poi pubblicati i resoconti delle sue avventure.
L’incontro con Rumiz, dal titolo “Viaggiare con i piedi”, è stato proposto dal P.E.N. International della Svizzera italiana e Retoromancia, e quando lo scrittore inizia il suo intervento si capisce subito che non stiamo per ascoltare un semplice turista. Infatti esordisce dichiarando che il titolo giusto della conferenza avrebbe dovuto essere “Scrivere con i piedi”, a indicare che la scrittura deve nascere “dal cammino e da quelle cose importanti del nostro corpo che sono il respiro e il battito del cuore”. Qui si coglie il ritmo dell’uomo e del suo viaggiare. Un’andatura costante, come una metrica.
Lo stesso ritmo lo ritroviamo anche nel racconto del viaggio, una metrica che permette all’autore di partire con la narrazione e che snocciola “rime corte” una dopo l’altra. È il caso di “La cotogna di Istanbul”, racconto in “quasi endecasillabi” che narra del viaggio e della vita dove l’uno e l’altra corrispondo alla perfezione. La vita è quella dell’autore, il luogo del viaggio è Sarajevo, dove Rumiz incontra una donna con la quale nasce una grande “storia di intimità”. Nel libro questa diventa una storia d’amore tra un ingeniere tedesco, Max, e una donna mussulmana, Masa, che ha “gli occhi come grani di uva nera”. Il forte legame tra i due protagonisti ruota intorno a una canzone popolare che Masa canta a Max: è la storia di un uomo e una donna. Lei è malata, e l’unica cosa che potrebbe farla guarire è una cotogna di Istanbul. Lui chiaramente parte alla ricerca del frutto guaritore, ma il viaggio che avrebbe dovuto essere di breve durata si protrae per tre anni. Quando l’uomo torna dalla donna, la trova morta e fa giusto in tempo a darle un ultimo bacio prima che venga sepellita. Questa è appunto anche la storia vissuta realmente dall’autore che si è portato dentro a lungo, raccontandola oralmente e che a un certo punto ha voluto stampare su carta per evitare che si perdesse. Malgrado questa necessità Rumiz mantiene però il desiderio che la sua storia, ma anche tutte le storie, continui a essere trasmessa oralmente, cambiando di volta in volta viaggiando dalla memoria di chi narra a quella di chi ascolta.
Sellecitato da Franca Tiberto sul come nascono i viaggi, come quello compiuto alla ricerca dei luogi di Annibale e che ha portato al libro “Annibale, Un viaggio”, Rumiz afferma che spesso sono “i viaggi a cercare te”. È quel che gli è successo mentre attraversava gli Appennini dove si è imbattuto “nell’ombra di Annibale” ancora presente a distanza di duemila anni nelle indicazioni toponomastiche, e questa presenza ferma in quei luoghi ha convinto lo scrittore a ripercorrere quelle vie, alla ricerca delle emozioni vissute da altri viaggiatori una ventina di secoli prima di lui.
Gilberto Isella, invece, chiede a Rumiz di spiegare cosa intende dire quando afferma essere “il viaggio che costruisce te”. Lo scrittore triestino si rifà alle parole dello svizzero Nicolas Bouvier il quale ritiene inutile cercare di “piegare il viaggio alle vostre esigenze e ai vostri piani, perché il viaggio non ci metterà molto a farvi capire che comunque è lui che vi dà i suoi ritmi”. Il viaggatore deve essere sempre pronto ad adattarsi al viaggio. Bisogna partire e lasciarsi sorprendere da quel che succede, un po’ come dovrebbe essere nella vita. E qui si capisce che per Rumiz la vita è viaggiare e il viaggio è vivere.
Apparso su laRegione Ticino dell’8 novembre 2010