Intervista a Dario Galimberti, apparsa su ilmancino.ch
Un giallo tutto ticinese ci riporta tra le vie, le abitudini e la vita di una Lugano che molti di noi nemmeno riescono più a immaginare. Luoghi che non esistono più, prospettive geografiche ora completamente stravolte e ritmi che ancora permettevano ai luganesi di essere un tutt'uno con la loro città. Questi sono alcuni degli aspetti che troviamo in «L'angelo del lago», l'ultimo libro di Dario Galimberti. Oltre a ciò, chiaramente l'intrigo, le indagini e i colpi di scena attraverso i quali si chiariscono i contorni di un omicidio che irrompe nella tranquillità della cittadina.
Dario, di professione sei architetto. Alle spalle hai anni di progettazione, d’insegnamento e anche qualche bel premio. Nel 2014 è uscito il tuo primo libro, e ora sei già al quarto. Com’è nata questa svolta creativa?
Mi è sempre piaciuto scrivere. La prima storia, influenzato dalla passione per il cinema che avevo da giovane, l’ho scritta a diciassette anni sotto forma di sceneggiatura. La scrittura, quale strumento supplementare per la descrizione dei progetti, è poi diventata nel tempo una costante della quotidianità. Coinvolto dal pragmatismo dell’esistenza, ho scelto altre priorità e il tutto è rimasto assopito finché nel 2014 è uscito il primo romanzo.
Abbiamo detto quattro libri, tra questi: un fantasy, «Il Bosco del Grande Olmo»; un romanzo storico, «Il calice proibito»; e ora un giallo, «L'angelo del lago». Il cambio di genere è una scelta consapevole, una sorta di ricerca, o una semplice casualità?
Non avevo mai pensato a un genere specifico, per cui ho sviluppato le idee che avevo in quei momenti. I primi tre romanzi sono delle storie avventurose per ragazzi e spaziano nella fantasia: un mondo parallelo abitato da esseri alla Tolkien (Il Bosco del Grande Olmo); le disavventure di due cani che cercano i loro padroni (Lo chiameremo Argo); e un viaggio tra gli antichi romani e la nanotecnologia (Il calice proibito).
L’idea di ambientare una storia al Sassello mi è venuta vedendo alcune fotografie della tranquilla quotidianità dell’epoca, così in contrasto con le motivazioni che programmavano la sua distruzione. Il bellissimo libro: «Sassello. Il quartiere frainteso» a cura di Carlo Agliati, mi ha aiutato a “muovermi” virtualmente tra le strade e le viuzze. Un giallo tra quegli anfratti, poteva essere l’occasione per fare un viaggio in una Lugano d’altri tempi.
«L'angelo del lago», è un giallo avvincente. Senza svelarne ogni segreto, vuoi dirci di cosa racconta?
La vicenda inizia nell’autunno del 1935 al mercato di Lugano. Un ladruncolo ruba delle ciambelle, ne nasce un putiferio e il giovane gendarme Albino Frapolli lo insegue. Il rocambolesco tallonamento porta i due al Sassello, quartiere considerato malfamato da tutta la collettività. Titubante, il gendarme entra in quel luogo per la prima volta nella sua vita. Uno strano personaggio attira la sua attenzione e lo conduce in un cortiletto dove a terra c’è il cadavere di una giovane ragazza nuda, che con molta probabilità è stata uccisa in maniera disumana. Il Frapolli fa chiamare il delegato di polizia Ezechiele Beretta, il quale lo coinvolge nelle indagini.
Con pochi indizi, e scavalcando i numerosi intralci orchestrati da alcuni potenti, i due, attraverso ragionamenti, interrogatori, testimonianze e astuzie varie, scoprono il colpevole ma non senza incappare in innumerevoli colpi di scena. Gli eventi ruotano attorno a protagonisti inconsueti: un delegato di polizia che legge Poe e frequenta le bettole malfamate del Sassello, un gendarme che voleva andare a Brera, e una ragazza morta il cui ricordo sconvolge gli animi dei protagonisti. Una storia per gli amanti dei romanzi gialli, dell’intrigo e della vecchia Lugano.
Con questo tuo ultimo libro, ci porti a conoscere una Lugano svanita, che ormai esiste solo nelle raccolte fotografiche di qualche archivio o nei libri di storia locale. Non credo che questo sia un caso, sembra quasi che la narrazione sia un pretesto per denunciare la facilità con la quale alla fine degli anni '30 si è fatta tabula rasa del quartiere popolare del Sassello. È così?
In parte direi di sì, e non solo in quel periodo. Negli ultimi cento anni, all’incirca, a Lugano, oltre all’intero quartiere Sassello, vi sono state altre demolizioni rilevanti. Butto lì un elenco incompleto e disordinato per capire la dimensione del tema: Villa Tanzina (quella che ospitò Giuseppe Mazzini); Il Caffè Teatro (edificio neoclassico vicino al municipio); Il quartiere Maghetti (la parte interna); Le casermette e le scuderie di Villa Ciani; Il teatro Apollo (pregevole edificio di fine ottocento); Le scuole comunali; L’ospedale di Santa Maria (con all’interno un bellissimo chiostro), la relativa chiesa e l’annesso oratorio di Santa Marta; L’asilo in Piazza Cioccaro (con il cortile e le logge porticate); Il pretorio (con un’interessante sistema di logge sovrapposte); Il Venezia (Ex convento dell’Immacolata, con pregevoli loggiati dipinti); Il castello di Trevano (notevole opera neoclassica); L’oratorio di Santa Elisabetta e gli aggregati edili (di fronte al LAC); Il liceo (in centro). Il palazzo postale in Via Canova. E poi ancora: innumerevoli ville eclettiche, appena oltre il perimetro storico, nei più disparati stili architettonici; le due linee tranviarie (Lugano-Cadro-Dino e Lugano-Tesserete); e quant’altro, roba da non credere: neanche fossimo stati bombardati.
Edifici che avrebbero potuto convivere benissimo con la contemporaneità e dare nuovo lustro al centro storico e alla città in genere. Non possiedo statistiche in merito ma mi fido di un’intervista rilasciata alla radio da Tita Carloni, dove evidenziava e sottolineava come questo fenomeno luganese fosse un unicum in Svizzera.
La denuncia che si legge tra le righe non è solo architettonica, ma anche sociale. Con l'abbattimento del Sassello si è voluto allontanare dal centro cittadino anche un certo ceto sociale che è stato spostato alla periferia per lasciare spazio a banche e gioiellerie. Da architetto, come valuti l'evoluzione urbano-architettonica di Lugano?
La questione legata ai ceti sociali e a un presunto ordine/disordine pubblico, credo sia stato uno dei motivi fondamentali per l’abbattimento completo del Sassello. Le motivazioni che hanno portato alla situazione attuale sono forse state più economiche. Il terziario e il commercio d’élite hanno sostituito nel tempo le botteghe e gli artigiani del centro, l’aumento degli affitti ha poi allontanato gli abitanti lasciando la città deserta. Il modo di vivere è assai cambiato da quei tempi, la gente ora vive nelle periferie frammentate, costruite con parametri che la impongono, senza continuità e senza luoghi di aggregazione. Luoghi che gli esseri umani desiderano per la loro stessa natura, e che trovano – aimè – solo nei centri commerciali.
La zonizzazione, nata per far fronte ai problemi urbanistici esplosi con la rivoluzione industriale e poi teorizzata in vari momenti, in particolare alla fine degli anni venti – e applicata tuttora – ha generato un grande malinteso. «Abitare, lavorare, ricrearsi» era un motto che corrispondeva a precise zone funzionali urbane. Io credo che i politici, i costruttori, i pianificatori e gli architetti si siano fatti coinvolgere da subito in maniera precipitosa. Sebbene, con l’avvento dei nuovi sistemi produttivi fossero necessari spazi adatti e difficilmente conciliabili con quelli abitativi e ricreativi, le separazioni attuate con quei principi hanno originato fenomeni ingestibili, come ad esempio le periferie dormitorio.
L’evoluzione urbanistica di Lugano è simile a quella di molte altre città e riflette quanto detto poc’anzi, ad eccezione del centro storico, che mi pare un fenomeno molto luganese.
Nella «nota dell'autore», critichi i colleghi architetti che in quegli anni «inebriati dalle nuove teorie urbanistiche [di] Le Corbusier [vollero] lasciare un segno della modernità». La modernità, però, portò anche nuove soluzioni che avevano proprio lo scopo di realizzare abitazioni pregiate per le classi sociali meno abbienti. Penso per esempio a Casa Albairone di Peppo Brivio. Se dovessimo mettere da una parte quegli architetti in un certo senso complici dell'emarginazione dei meno fortunati e dall'altra quelli spinti da una sorta di filantropia che a queste persone hanno cercato di assegnare luoghi dignitosi, da che parte penderebbe la bilancia?
La critica di cui parli, si riferisce all’incompatibilità di molti sostenitori delle teorie urbanistiche e moderniste di quegli anni (e non solo) verso tutto quello che non apparteneva all’epoca in cui erano state espresse. Io credo che la modernità – purtroppo – non abbia mai superato la sua vocazione episodica. La casa di Peppo Brivio che citi è un capolavoro d’intenti e architettonico, ma è anch’essa un episodio che s’inserisce nella frammentata ed emarginata periferia. Un quartiere stratificatosi nel tempo come il Sassello, con un tessuto storico intriso di memoria, edificato tra spazi a misura d’uomo e continuità espressiva, fatto di materiali semplici e forme analoghe, non è paragonabile alla somma di singoli episodi autoreferenziali. Questo vale anche e soprattutto per i nuovi quartieri, dove il fenomeno episodico dell’autoreferenzialità è la regola.
Ci saranno delle eccezioni, ma la città contemporanea è questa: una somma di edifici – magari meravigliosi se presi singolarmente – ma che reagiscono con indifferenza alla realtà che gli sta accanto. Questo significa che tutto è edificato senza continuità, trascurando un armonioso disegno d’assieme a favore di un’esasperata diversità.
Non credo quindi che il problema si possa demandare alla sensibilità sociale dei singoli architetti, ma alla società, di cui l’architettura è l’espressione.
Grazie Dario, l'ultima domanda è semplice. C'è un altro libro all'orizzonte?
Sì. Ancora un giallo a Lugano con i medesimi protagonisti: il delegato di polizia Beretta, i suoi amici, il Sassello e naturalmente il lago. Grazie.